Di Admin (del 24/06/2010 @ 03:10:32, in Articoli, linkato 1893 volte)
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In un lontano sketch Arbore, Benigni Nichetti, Verdone commentavano da una casa di riposo per vecchi artisti la finta morte di Massimo Troisi. L’attore convinse gli amici perplessi: per lui quello era un modo di esorcizzare un’ombra.
Assai diversa appare invece la provocazione studiata da Max che nella sua prossima copertina espone un Roberto Saviano disteso su un lettino da obitorio con all’alluce il cartellino di riconoscimento. Per Andrea Rossi, direttore della testata, l’immagine testimonia la volontà di schierarsi dalla parte dello scrittore dopo i recenti attacchi piovutigli da più parti.
Forse i tipi di Max avevano ritenuto implicitamente corretta la loro scelta editoriale alla luce del processo mediatico che ha travolto l’autore di Gomorra. Saviano, cui da anni è stata assegnata una scorta per il timore che sia finito nel mirino del clan dei Casalesi, ha criticato la foto, definendola di cattivo gusto. Dunque ne era all’oscuro, come conferma lo stesso Rossi che però aggiunge di aver anticipato il progetto all’agente dello scrittore.
Da tempo Saviano procede diritto per la sua strada e non ha bisogno dei consigli di nessuno. Tuttavia dovrebbe forse interrogarsi sul rapporto inversamente proporzionale esistente tra il Saviano personaggio pubblico, icona dell’anticamorra e lo scrittore. Più s’impone il primo, più si svilisce l’altro. Sempre che sia ancora possibile tenere le due figure su un piano distinto.
Di Admin (del 29/06/2010 @ 08:58:39, in Articoli, linkato 2231 volte)
Non curante delle telecamere, il commissario tecnico della Germania Joachim Löw è stato sorpreso durante la partita contro l’Inghilterra, mentre si ficcava le dita nel naso e, dopo aver frugato con forza, inghiottiva quanto pescato. Ciò che conta però, è che la Germania proceda spedita il suo cammino nei mondiali sudafricani e lo faccia grazie a una rosa per metà composta da giocatori nelle cui vene scorre del sangue non esattamente ariano.
Tutto ciò lascerebbe credere che i teutonici si siano finalmente messi alle spalle le sciagurate strade intraprese nel secolo scorso. Ma forse il passato non è poi così lontano. Almeno a giudicare dalla proposta di Peter Trapp, esponente del partito democratico cristiano, per il quale è necessario sottoporre preventivamente gli immigrati a un test d’intelligenza. Per Trapp infatti, in tema di immigrazione occorrono criteri moderni e i motivi umanitari da soli non sono sufficienti.
La proposta è stata rigettata da governo e opposizione, tuttavia simili uscite non sono per nulla inedite. Di recente un membro della Banca centrale tedesca ha dichiarato che i figli degli immigrati sono più stupidi dei giovani tedeschi e minacciano di inquinare la indiscussa superiorità tedesca. Traff e i suoi sodali dimostrano di essere intelligenti, cristiani e democratici. Noi, poveri esseri inferiori, possiamo solo limitarci a tifare sabato Argentina. Senza dare nell’occhio. Non si sa mai.
Ho preso le ultime quindici pagine tra le mani. Tenendo fermo l’indice sotto la copertina mentre il pollice sfogliava veloce. e m’è venuto su l’uomo leggero leggero. Dal basso verso l’altro di un grattacielo che chiunque riconoscerebbe.
Come si fa a invertire l’ordine delle cose e a tornare indietro su un pezzo di vita? come si fa quando si vuole ancora avere un quaderno bianco e tutto il tempo davanti e invece sta finendo lo spazio e non era previsto ed è successo così all’improvviso?
Oskar ha nove anni, l’11 settembre è tornato a casa perché a scuola gli hanno detto che era successa una cosa brutta. E mentre glielo dicevano non ha pensato che la cosa brutta potesse in qualche modo riguardarlo. Oskar ha un segreto, quando è tornato a casa nella segreteria telefonica c’erano cinque messaggi lasciati dal padre che chiamava dalla torre. Solo lui li ha ascoltati, solo lui ne conosce il contenuto. Ha sostituito l’apparecchio e non ha raccontato niente a nessuno. Inizia la sua ricerca. Deve conoscere quegli ultimi momenti di vita, ‘ho bisogno di sapere come è morto ho detto…per riuscire a smettere di inventare come è morto’.
Trova una chiave e vuole scoprire quale serratura apre, di quale porta. E così va in giro e gli succedono tante cose e le più paradossali lui le conserva in Cose che mi capitano. Oskar è un ragazzo geniale, inventa le cose più strane, scrive un mare di lettere per ‘alleggerirsi le scarpe’, si fa lividi sul corpo quando la sofferenza diventa insopportabile, le sue riflessioni sono incredibili. Le riflessioni esistenziali che può fare solo un bambino (quando il bambino era bambino).
Jonathan Safran Foer ci prende con le parole, con le immagini, con i colori. Ci sorprende continuamente, non si sa mai girando pagina cosa ci sarà. Un testo, una pagina bianca, una sola parola, o una frase, una fotografia, un colore, un errore, una cancellatura. E ci prende col suo racconto, col suo ritmo a tratti ossessivo ciclico ripetitivo, col suo linguaggio particolare, coi suoi personaggi, con le storie familiari da ricostruire ed ogni personaggio è un pezzo del puzzle. Ci prende coi sentimenti. Ci prende col dramma della separazione che ci paralizza, ci impedisce di andare avanti, ci riporta all’ultimo momento, inconsapevolmente ultimo, bisognerebbe capire che è proprio l’ultimo, per dire fare impedire.
E dov’è il tasto di rewind? e quando è spinto al massimo poi.. qualcosa e niente è uguale.
‘Le parole vengono facili. Alla fine del mio sogno, Eva ha rimesso la mela sull’albero. L’albero è rientrato nella terra. E’ diventato un arboscello, che è diventato un seme. Dio ha unito la terra e l’acqua, il cielo e l’acqua, l’acqua e l’acqua, la sera e la mattina, qualcosa e niente. Ha detto: Sia la luce. E il buio fu.’
Due omicidi, quattro sequestri di persona, decine di attentati e un numero indefinito di evasioni: questo è il bilancio dei tre anni d’azione dei Nuclei armati proletari, organizzazione attiva a metà degli anni Settanta forte di un centinaio di militanti effettivi e con un seguito “esplosivo” dentro e fuori le carceri.
Una storia mai raccolta e raccontata che qui rivive grazie alle testimonianze irrinunciabili dei protagonisti: ex nappisti, ma anche dirigenti di Lotta Continua, delle Brigate Rosse e di altri gruppi armati. E ancora: le vittime degli attentati, i poliziotti che li braccarono, i magistrati che li perseguirono, i giudici che li condannarono.
Gli anni Settanta come non sono mai stati raccontati.
Il 26 novembre alle ore 18.00 alla ex mensa proletaria di Montesanto in Vico Cappucinelle 13 Goffredo Fofi e Isaia Sales presentano Vorrei che il futuro fosse oggi.
Discuteremo della vicenda nappista lì dove un frammento di quella esperienza mosse i primi passi.
Una stagione di vite bruciate sparando in nome dei Nap. Parliamo dei Nap e dei nostri - napoletani - anni di piombo. A fornircene l'occasione è l'uscita di un libro utile e interessante, ma anche la consapevolezza di vivere un periodo di tensioni e di lacerazioni molto simile a quello nel quale covò la ribellione. Quaranta anni fa.
Partiamo da uno dei protagonisti. "Sergio" è il nome di battaglia di un ragazzo calato a Napoli da Aiello del Sabato, uno dei più derelitti presepi irpini. Condannato a vivere nelle anguste segrete dei riformatori, aveva perduto la misura del proprio corpo e, fuori dal carcere, si muoveva con difficoltà. Sergio è il personaggio simbolo di una storia di protesta estrema vissuta in maniera che si potrebbe definire perfino ingenua se non avesse lasciato dietro di sé una scia di sangue, nella Napoli degli anni Settanta immersa «in un cocktail devastante di microcriminalità, disoccupazione e rabbia verso le istituzioni».
È stato proprio questo cocktail a convincere Valerio Lucarelli, un giovane scrittore che non ha paura di confrontarsi con argomenti scabrosi - il libro di esordio, "Buio Rivoluzione", è tutto centrato sulle Brigate rosse - e con l'opportunità di recuperare dalle macerie della memoria la breve e drammatica parabola dei Nuclei armati proletari. Che è poi la storia di Sergio Romeo e di altri dannati come lui, finiti male, qualcuno morto, i più sopravvissuti dopo condanne severissime ma «scomparsi» e incapaci di riciclarsi comeè riuscito ai compagni forse più scaltri delle altre formazioni eversive.
Facciamo qualche altro nome: Giovanni Gentile Schiavone, l'ideologo della formazione, Nicola Pellecchia, Domenico Delli Veneri, Vitaliano Principe, Alfredo Papale, Pietro e Pippo Sofia, Antonio e Pasquale De Laurentis. E due donne, Maria Pia Vianale, una bellissima ragazza trasfigurata dal carcere duro, e Franca Salerno.
Il libro, edito da L'Ancora del Mediterraneo, ha un titolo incisivo "Vorrei che il futuro fosse oggi. Nuclei armati proletari ribellione, rivolta e lotta armata". Goffredo Fofi e Isaia Sales ne parleranno alle 18 nella Mensa dei bambini proletari di Montesanto e la scelta del luogo non è casuale perché i Nap nacquero come deformazione estrema delle grandi pulsioni intellettuali di quella stagione. Che ebbero il punto più alto nella "mensa".
Lucarelli è attento, oltre che diligente, ad accompagnare il lettore più giovane nel "laboratorio Napoli" mirabilmente descritto anche da Fabrizia Ramondino sempre dalla parte degli ultimi. Il primo vento di ribellione soffiò grazie anche agli articoli di un giornale alla buona, "Mo' che il tempo si avvicina", che precede di pochi mesi la fondazione della Mensa per i bambini proletari.
Geppino Fiorenza, uno dei fondatori, ricorda oggi al giovane Lucarelli che l'obiettivo era «restituire ai più piccoli l'infanzia negata». Il successo fu immediato e ad altissimo livello: tra i sostenitori, infatti, troviamo Antonio Ghirelli, Vera Lombardi, Luigi Comencini, Franco Rosi e poi ancora, risalendo il Garigliano, Enrica Olivetti, Elena Pirelli e la famiglia Falck.
Il momento decisivo per l'irruzione sulla scena dei Nuclei armati proletari «è l'incontro in carcere tra detenuti e studenti»: la scintilla esplode e qualche tempo dopo deflagra facendo uscire alla scoperto i leader dei Nap che non hanno mai riconosciuto come "maestri" i brigatisti. «La differenza di fondo- fa notare Lucarelli - è che, nelle carceri, le Br si dedicarono a un indottrinamento politico quasi scolastico e questo non poteva bastare ai nappisti segnati da una disperazione invincibile».
Gli eventi sono incalzanti. La storia precipita, gli episodi del libro sono di straordinario interesse. Tre molto significativi: l'assalto alla "Berta", la sezione del Msi, in via Foria (3 ottobre 1973) durante la quale "Sergio" ferì con una catena il segretario Michele Florino; il sequestro dell'industriale del cemento, Moccia, che servì a finanziare il gruppo e, infine, l'esplosione nel covo di via Consalvo, a marzo di due anni dopo: l'ordigno che stavano confezionando esplode e uccide sul colpo Vitaliano Principe, studente di medicina ventitreenne, e ferisce gravemente Alfredo Papale che, successivamente, perderà un occhio.
L'esplosivo doveva servire per "attaccare" la Divisione Ogaden dei Carabinieri, l'esplosione segnò l'avvio del declino dei Nap. Che, comunque, hanno pagato più delle colpe, pur gravissime, commesse. «E questo mi ha spinto a scrivere una storia mai scritta», conclude Valerio Lucarelli, «incoraggiato da Erri De Luca, ex militante di Lotta continua, che ancora esprime, nei suoi scritti, una forza mai sopita».
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Una volta un amico mi ha detto 'se leggi Moby Dick devi farlo con la Bibbia a portata di mano, ogni nome nel romanzo è biblico'.
Chi legge questo libro deve farlo con la musica a portata di mano. E anche con un browser a disposizione per navigare verso gli infiniti mondi che si aprono in queste pagine.
Questa storia inizia di lunedì con un bus che parte dal Sud del Jersey rurale diretto a New York “montai sull’autobus a vent’anni. portavo calzoni di tela, un dolcevita nero e il vecchio impermeabile grigio comprato a Camden. Dentro la piccola valigia scozzese in giallo e rosso c’erano le mie matite da disegno, un blocco, Illuminazioni, qualche vestito e una fotografia di mio fratello e delle mie sorelle. Ero superstiziosa. Quel giorno era lunedì; ero nata di lunedì. Era una giornata perfetta per arrivare a New York. Nessuno mi stava aspettando. Ma mi aspettava ogni cosa”
Quando l’arte è dentro, a volte in una fase iniziale si può non sapere bene quale espressione troverà per esprimersi, come accadrà e quando. Nel frattempo, mentre si cerca in se stessi e si guarda il mondo, bisogna mangiare e dormire. Patricia fa la commessa in un negozio quando Robert entra con la camicia bianca e la cravatta, “somigliava a uno scolaretto cattolico”, e compra una collana persiana. “non darla a nessun’altra tranne che a me” .. lui sorride e dice “non lo farò”.
Lei è Patti Smith, lui Robert Mapplethorpe, hanno vent’anni, sono solo due ragazzini. Il vocabolario visivo di lui è affine al vocabolario poetico di lei, rappresentano “una singolare combinazione tra Cenerentola a Parigi e Faust”, “ribelli senza una causa” e devoti all’arte. Aggrappati ad un sogno.. Hang On To A Dream http://www.youtube.com/watch?v=A9pNnKxewss
Gli anni sessanta volgono al termine, Robert e Patti compiono ventitrè anni “il numero primo perfetto…lui indossava teschi. Io indossavo cravatte. Ci sentivamo pronti per gli anni settanta”. Non hanno un soldo, a volte nemmeno per mangiare, vivono in una stanza al Chelsea Hotel, coi pidocchi in testa, “bicchieri di carta per pisciare e giocattoli rotti”. Patti racconta di aver rubato un giorno al supermercato due bistecche e averle messe nelle tasche di uno dei suoi lunghi trench. È spesso avvolta nei trench, nelle cui pieghe grandi e asimmetriche si sente una principessa o una monaca. Robert scatta dalla fotocamera Polaroid, Patti scrive.
Incontrano un mondo.. la New York anni ’70 piena di artisti, poeti, musicisti. Anime inquiete, come loro. Patti non racconta l’affermazione ma la ricerca, due ragazzi in uno stato embrionale con potenzialità incredibili. Robert dirà poi “Patti, l’arte si è impossessata di noi?”.
E’ un racconto pieno di poesia e spiritualità. Patti è una superstite. Il suo mondo va via piano. Uno ad uno. Aids, overdose, suicidio. E’ un giro di persone che cerca l’immortalità e sfida la vita ogni giorno. Resta l’arte. La bellezza. E lei, dentro il suo cappotto lungo, su una spiaggia con un cielo dipinto, ferma in un attimo di infinito
Little emerald bird wants to fly away. If I cup my hand, could I make him stay? Little emerald soul, Little emerald eye. Little emerald soul, Must you say goodbye?
“La cartina che mi accompagna dall’inizio del viaggio non indica più la direzione. Al contrario, me ne devo disfare al più presto e lasciare la strada tracciata da altri. Un azzardo che presta il fianco agli attacchi bipartisan di una certa critica e degli ex nappisti. La prima, pronta a stroncare una ricostruzione non conforme alla vulgata imperante. I secondi dubbiosi di fronte a una visione niente affatto accomodante. C’è un pericolo, tuttavia. Ascoltare le disavventure di un giocatore vissute in nome della febbre che lo attanaglia può risultare affascinante. Fin troppo facile giustificare bonariamente, quando non provare una simpatia istintiva. Ove poi il racconto sia levigato dal tempo, si rischia di avvolgerlo in un’aurea mitizzante. Osservare con i propri occhi un uomo che si consuma giocando può risultare osceno fino alla nausea. Questo libro è fatto di testimonianza vive, autentiche, ma spuntate dal tempo. Non si tratta di un limite ma di una circostanza obiettiva che deve aiutarci a non scivolare in un’epopea deformante. Quella che stiamo raccontando è e rimane una storia acre. Non si tratta di solidarizzare né per il gioco, né per il giocatore ma di comprendere, metabolizzare, crescere.” (Valerio Lucarelli, pag. 110)
Per il sottoscritto aprire un libro, saggio o romanzo che sia, dedicato al ’68, agli anni del terrorismo, delle stragi nelle banche, nelle piazze, nelle stazioni, dei rapimenti non è una operazione affatto semplice. Significa riaprire capitoli di storia familiare, di istanze tradite, di dolori e lutti, di solitudini e senso di sconfitta. E’ come ritornare ai primi del ‘900 e riannodare i fili che mi legano ai miei avi, alle loro battaglie, a quel mio bisnonno socialista picchiato dai fascisti persino in sanatorio, a un mio nonno partigiano e ad un altro lavoratore coatto in Germania da cui tornò col fisico e la mente a pezzi, ai familiari impegnati nelle lotte degli anni ’60. E’ riassaporare sulle labbra quel senso di rivoluzione mancata, di rinnovamento mai compiuto, di uno stato delle cose mai sovvertito. E’ ritornare ad interrogarsi sul passato e sul presente con un carico di sofferenze e dubbi che mi rovinano sempre lo stomaco. E’ la discussione infinita sui compagni che sbagliano oppure no, su chi sia uomo e chi non lo sia, su chi meriti di vivere e chi no. Su cosa sia davvero una pozza di sangue a terra. Se penso alla bomba nella stazione di Bologna, le mie mani si riempiono di sudore, perché è solo per un improvviso cambio di programma di mio padre che io, mia madre e mia sorella siamo ancora in vita.
Questi sono alcuni dei motivi che mi spingono spesso ad evitare questi libri o le analisi che puntualmente tornano a riempire i giornali, spesso scritte dagli stessi protagonisti di quegli anni, molto spesso protagonisti di operazioni di ripulitura quanto meno discutibili. Ma ce ne sono anche degli altri come la pochezza delle argomentazioni, il loro spirito partigiano a seconda del colore politico, o il privilegiare le tesi complottistiche (utili anche a lavarsi delle proprie colpe) ma anche la tendenza di molti commentatori a dipingere i responsabili di quegli atti efferati come dei casi psichiatrici, dei mostri partoriti da qualche Geenna di fuoco e fiamme, assetati di sangue come dei vampiri.
Ed è per questo che sono rimasto profondamente colpito e confesso anche commosso dal saggio di Valerio Lucarelli “Vorrei che il futuro fosse oggi. Nap, ribellione, rivolta e lotta armata” dedicato all’organizzazione armata dei Nap – Nuclei Armati Proletari attiva negli anni ’70 e responsabile in tre anni, dal 1974 al 1977, di due omicidi, quattro sequestri di persone, decine di attentati, assalti alle sedi dell’MSI e svariate evasioni. La loro storia si concluderà nel 1977 con il maxiprocesso di Napoli che inflisse pene di 289 anni e 11 mesi di carcere a 22 nappisti.
Perché commosso e colpito? Principalmente perché Lucarelli dimostra sin da subito la volontà di liberarsi da pregiudizi di ogni sorta che impediscono un’attenta valutazione del fenomeno dei Nap e più in generale del contesto entro cui si muovevano, quello di uno stato sempre pronto ad una svolta autoritaria per difendere una presunta democrazia, venando la sua ricerca di un’empatia, di una vicinanza umana verso gli appartenenti di quel gruppo, le cui testimonianze Lucarelli recupera con difficoltà, senza mai dimenticare le loro colpe, i loro errori, il sangue sparso, i lutti di cui si sono resi responsabili.
Il senso della missione di Valerio Lucarelli è racchiuso in questo passaggio a pagina 11: “Il primo ex nappista incontrato è stato Nicola Pellecchia. Da anni vive a Procida, l’isola di Arturo. Il mare come barriera protettiva. Un pomeriggio gli descrissi i miei contatti fiorentini che un tempo avevano animato il Collettivo Jackson. Di norma, deciso, il timbro della voce di Nicola parve per un attimo incerto. “Sai che Annamaria era la mia compagna?”. Annamaria Mantini, nappista come il fratello Luca, trovò la morte nel luglio 1975, due mesi dopo il sequestro del giudice di Gennaro. Con garbo, Pellecchia mi rivelava qualcosa di intimo, di profondo. Non risposi. Capii che quel pensiero non era concluso. “Sono stato a Firenze, ho chiesto informazioni, ma invano. Mi sono rivolto anche all’autorità cimiteriale. Senza successo. Credo che i compagni di Firenze sappiano bene dove è sepolta. Se lo venissi a sapere…Mi piacerebbe andarla a trovare”. Il suo problema diveniva mio. Prima di ogni ricostruzione, era per me doveroso scoprire dove Annamaria Mantini riposava. Riuscii a saperlo. Se il senso del mio lavoro era quello di riannodare i fili strappati, sentivo già di averne ricucito uno.”
I NAP furono una formazione atipica degli anni ’70, considerati da molti marginale e destinata ad auto dissolversi in un vicolo cieco, quello della lotta armata. Usciti in parte dall’alveo di Lotta Continua, ritenuta incapace di portare sul piano pratico la lotta contro lo Stato, nei NAP confluiranno anche elementi fuoriusciti dalla FIGC, da altri movimenti extraparlamenti, dai movimenti cattolici o anche solo provenienti dalla delinquenza comune, da quelle bande di rapinatori diventate tragicamente famose “Il motto delle bande “Portare a casa i soldi. Riportare a casa tutti” è una filosofia sposata appieno dai Nap. In modo istintivo, come dimostra Luca Mantini nella drammatica rapina di piazza Aliberti, quanto progettuale, mirando a evadere dai penitenziari di tutt’Italia nei quali venivano racchiusi” (pag. 111) e fondamentale per l’organizzazione fu l’apporto delle donne.
Distanti dall’ortodossia marxista-leninista delle BR con le quali ci furono svariati i momenti di frizioni e con le quali ci furono legami operativi quasi più opportunità (ma entro cui confluiranno i nappisti superstiti), i NAP si rivolgevano agli ultimi. E dov’erano gli ultimi? Nelle carceri, nei manicomi, fra quel sottoproletariato, il Lumpen, così tanto disprezzato anche da Carlo Marx. Combattevano per le marginalità auspicandosi una rivoluzione che non avverrà mai. A dimostrazione dell’ambito entro cui si muovevano basta citare il documento uscito nel 1974 “Nuclei Armati Proletari, Autonomia Proletaria - Nucleo esterno movimento detenuti" o la campagna sempre del 1974 “Rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei esterni"
“Analizzando gli anni Settanta non è difficile cogliere l’assoluta particolarità di un gruppo nato non da spinte ideologiche ma da pulsioni cui le istituzioni non sapevano o non volevano fornire alcuna risposta. I Nuclei armati proletari rappresentavano dunque una concreta minaccia all’ordine precostituito. Potevano costituire l’innesco di una gigantesca polveriera pronta a esplodere da un momento all’altro. Al Nord, trasformato dalla grande migrazione dal Mezzogiorno che aveva sfigurato il territorio, al cui interno si erano sviluppati interi quartieri, quando non cittadine, dove un’edilizia senza freni né decoro rubava il fiato a qualsiasi pur lontana parvenza di futuro. Ma soprattutto al Sud emarginato, largamente illetterato, dove lo stato dava prova quotidiana della sua manifesta latitanza e una nuova criminalità si preparava a metter radici per scippare il domani di quelle terre. E ancora, l’intreccio originale, e perciò temibile, fra studenti della piccola borghesia e il proletariato extralegale, E’ cruciale comprendere fino in fondo l’abbraccio fra giovani universitari e Lumpen. Gli studenti, talvolta accesi da presuntuose certezze, decidono di imboccare una via, scelgono razionalmente di sferrare un assalto alle istituzioni. E lo fanno affrancandosi da remore e pregiudizi, facendo propria la carica dirompente sbrigliata dalla rivolta degli ultimi, più o meno consapevoli del paracadute garantito dal ceto sociale di appartenenza. Gli extralegali no. Loro non decidono. Animati dal fuoco della ribellione, spinti dall’urgenza di prendere l’iniziativa e dall’illusione che ciò possa mutare qualcosa, cementati da rapporti fraterni e immuni da ogni integralismo fideistico, vanno allo scontro in modo del tutto naturale, coscienti delle conseguenze. Deviante affermare che non avessero nulla da perdere. Accadde infatti che dall’altro lato non se ne stettero con le mani in mano. E si sprofondò nel dolore di sempre. Né sarà da meno il durissimo epilogo entro cui andranno incontro al termine di quella tumultuosa stagione.” (pag.109)
La storia che racconta Valerio Lucarelli non è solo la storia dei Nap, delle altre formazioni armate, della sinistra extraparlamentare ma quella di un intero paese, il nostro, non solo quello degli anni ’60 ma anche quello attuale incapace di mettersi in dubbio, di recepire le pulsioni positive che talvolta salgono dagli strati più bassi della popolazione, dagli ultimi, dai carcerati. Per chiudere questa dolorosa recensione mi limito ad un ultimo passaggio di questo saggio dedicato al carcere, obiettivo prediletto dei Nap e fondamento della società, un passaggio che dimostra ancora una volta come il nostro paese (e non solo) sia incapace di cambiamenti, come insomma il passato non insegni mai davvero nulla.
“I numeri indicati dal ministro della Giustizia Angelino Alfano alla festa della polizia penitenziaria del giugno 2009 si commentano da soli. Duecentosei istituti penitenziari in grado di ospitare non più di 43.262 detenuti ne stipano oltre 63.350. A giudizio del ministro il sovraffollamento è causato dalla fitta presenza di detenuti stranieri, circa 24.000. Numeri che crescono ogni giorno di più, appena tre anni dopo un indulto che aveva fatto uscire 26.201 detenuti. Nel 2008 almeno centoventuno morti nelle prigioni di cui quarantotto i suicidi accertati. Nel 2009 i suicidi salgono a settantuno, uno scioccante primato. Non certo migliore la situazione negli Ospedali psichiatrici giudiziari. La rivoluzionaria legge 180, pensata dallo psichiatra Franco Basaglia, è stata essenziale per la chiusa dei manicomi. Ma a tutt’oggi in Italia sopravvivono sei Opg. Gli istituti di Aversa, Barcellona, Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Napoli e Reggio Emilia ospitano al loro interno oltre millecinquecento detenuti, la stragrande maggioranza dei quali internati. Una buona fetta di questa popolazione non rappresenta più un pericolo per la società ma, in mancanza di strutture adeguate pronte ad assisterli, viene loro preclusa ogni altra possibilità se non quella di restare a vita in un ospedale psichiatrico. In un suo rapporto, seguito a una visita compiuta nel settembre 2008, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha parlato di trattamenti inumani e degradanti subiti da alcuni internati legati al letto per giorni e giorni, sdraiati su un materasso con un foro al centro sotto al quale è disposto un secchio per gli escrementi. I padiglioni sono definiti “disgustosamente sporchi”, i servizi igienici in pessime condizioni, viene denunciata la presenza di ratti. Situazioni deprimenti che hanno prodotto anche cinque suicidi in poco più di un anno a cavallo del 2008.” (pag. 105-106)
Nell'opera di esordio Buio Rivoluzione, Valerio Lucarelli utilizzava il genere letterario noir per ipotizzare un ritorno delle Brigate Rosse - nel pieno dell'era berlusconiana - sulla scena politica italiana. Fatalità voleva che proprio negli anni in cui l'autore lavorava al romanzo, le nuove Br venivano allo scoperto firmando il terribile delitto del giuslavorista Marco Biagi.
L'interesse di Lucarelli per la tematica della lotta armata traspare anche nel suo secondo libro, pubblicato di recente e subito al centro di un acceso dibattito. Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata (L'ancora del Mediterraneo, pagg. 210) unisce infatti la passione giornalistica per l'inchiesta all'abilità narrativa nel ricostruire una storia per troppo tempo taciuta o accantonata: quella dei Nuclei Armati Proletari, la formazione terroristica sorta a Napoli negli anni Settanta e composta da oltre cento militanti, attivi anche dentro il carcere e strutturati in maniera più libera rispetto ad altre organizzazioni.
Nel libro Lucarelli decide di incontrare dal vivo i protagonisti dell'epoca e di riportare fedelmente le conversazioni tenute con loro. Il lavoro di documentazione è notevole e l'impressione che emerge da una prima lettura è quella relativa al grande sforzo affrontato dall'autore per superare le reticenze, le omissioni e le rimozioni relative a un periodo storico di cui non si è ancora discusso abbastanza: ne viene fuori un puntuale affresco in cui ex terroristi, parenti delle vittime e inquirenti discutono sugli oltre tre anni di attività dei Nap, riportando alla luce testimonianze ed episodi inediti.
Nel testo vengono infatti messi in rilievo non solo i fatti di cronaca poco noti al grande pubblico - dal sequestro dell'imprenditore Moccia a quello del giudice Di Gennaro - ma anche diversi aneddoti che sottolineano il clima decisamente «complesso» in cui matura l'esperienza terroristica. Se le Brigate Rosse furono un'esperienza legata inscindibilmente all'universo delle fabbriche settentrionali, i Nuclei Armati Proletari nacquero nel «contesto fluido» del sottoproletariato napoletano, segnato dall'alto tasso di disoccupazione, dalla presenza della criminalità e da una diffusa rabbia per le profonde disparità sociali. Non a caso, furono diversi i momenti in cui vennero realizzate inedite alleanze strategiche con la malavita.
Roberto Marrone, ad esempio, ricorda con ironia il suo scontro con un camorrista nel carcere di Poggioreale, in seguito al quale ricevette addirittura il plauso e l'aiuto del boss della Nuova Camorra Organizzata: «Dopo poco fui accompagnato dal vero direttore del carcere. A lui solo dovevo rendere conto del mio gesto. Entrai nella cella di Raffaele Cutolo e attesi il suo responso. Mi disse che sarebbe bastato un suo cenno e per me sarebbe finita. Poi aggiunse, sorridente, che io gli piacevo, che la gente come me credeva in quel che faceva e meritava rispetto. Da quel momento nessuno più mi diede fastidio».
La tesi di fondo di Lucarelli è che i Nap abbiano rappresentato una parentesi anomala nel terrorismo italiano, dominato dalla maggiore visibilità mediatica di gruppi come le Br o Prima Linea. Il potere di queste organizzazioni fu per altro dovuto alla presenza di una massiccia componente teorico-intellettuale, che comportò una profonda riflessione preliminare sui metodi della lotta armata e sulla propria strutturazione militare (la cosiddetta «compartimentazione», ovvero la separazione gerarchica di ruoli e competenze). I Nuclei Armati Proletari invece scontarono il limite di una libera organizzazione interna e di una suddivisione in cellule, spesso troppo deboli e ristrette.
Ma forse l'elemento fondamentale va rilevato nella diversa estrazione sociale. Esauritasi la loro esperienza, i nappisti tornarono infatti a ripopolare l'universo «perduto» da cui erano venuti fuori: chi morto o in prigione, chi in manicomio. Chi disoccupato e chi inserito nell'attuale contesto del lavoro precario.