I Racconti
Fuga a Procida - L'isola dei sensi
Il racconto è stato pubblicato dal periodico L'isola diretto da Roberto Gianani. Puoi leggerlo anche qui
"Enrico?"
"Sì, chi sei?"
"Sono Valerio, il fratello di Maurizio Lucarelli."
"Valerio" Enrico ripeté il mio nome scandendolo con voce rauca, come lo stesse recuperando da una caverna umida, dimora di affetti lontani.
Nei due minuti che seguirono racchiudemmo gli ultimi vent'anni della nostra vita. Ebbi la sensazione di non tralasciare nulla. Sapevo dai miei fratelli che Enrico portava avanti con passione il suo impegno per Procida. Ero certo che mi avrebbe compreso e aiutato.
"Cosa posso fare per te?" mi domandò con interesse.
"Ho bisogno di scrivere, Enrico. Ho pensato di rifugiarmi per qualche giorno a Procida."
A Enrico spiegai che desideravo trascorrere quel periodo in una casetta accogliente, non adiacente al mare.
Quando, sofferente, vivo la città, inseguo il mare con ansia. Inalo lo iodio come fossi in astinenza. Calpesto la sabbia per scaricare lo stress.
Ma sull'isola il mare lo avverto nei suoi vicoli, nelle misteriose scalinate che ti regalano l'idea di possederla.
A Procida vivo il mare come rivelazione che appare all'improvviso, violenta o sfumata in lontananza.
Ci ripromettemmo di trascorrere una serata ai tavolini di uno dei bar del porto o, come lui suggerì, in un ristorantino nello scenario incantevole della Corricella. Pesce appena pescato e cucinato con saggezza antica.
A bordo del traghetto, non amo l'irruenza degli aliscafi, pensai a nulla. Provavo, indurito, a chiudere gli occhi, poi nervoso li riaprivo e mi affidavo alle pagine di un libro. L'unica mia panacea.
Temevo l'inutilità di quel tentativo. Non era facile scrostare tutta l'indifferenza nella quale mi ero blindato per resistere ai temporali della vita. La mia anima, se ancora viva, non avrebbe trovato la forza per imporsi. La mia era solo una gita fuori stagione.
Mi alzai di scatto e mi avviai sul ponte a passo svelto.
L'ancora appennellata era pronta a far presa nel fondo marino. Non potevo essere così estraniato da perdermi la visione erotica dell'isola che lentamente svela le sue forme, come una donna affascinante, capace di sedurti anche senza vestiti.
Giallo, rosa, bianco. Il quadro delle case sul lungomare si delineava estasiandomi. Spettacolo unico, autentico miracolo di San Gennaro, capace ogni volta di rinnovarsi.
La bellezza mi stordì. L'urlo severo del marinaio prima del lancio della cima squassò deciso il mio corpo impermanente.
Il rumore violento del pugno di scimmia che atterrava furioso sulla banchina risvegliò del tutto i miei sensi. L'uomo prese la corda e diede volta alla bitta. La nave possedeva l'isola, io mi ci aggrappavo.
Scesi con calma smaniosa e mentre i pochi compagni di viaggio si disperdevano velocemente, chi verso l'autobus in partenza, chi altrove, cominciai a farmi blandire da Procida, dai suoi modi di donna matura.
Spingevo senza sforzo la mia valigia essenziale. Come un rabdomante in cerca dell'acqua, i miei passi mi guidavano verso un profumo che non avevo dimenticato. Entrai nel bar certo di non sbagliarmi. La ragazza dietro al bancone mi accolse cordiale. Intuiva cosa stessi cercando.
"Sono appena uscite dal forno" disse indicandomi le lingue di bue.
"Al limone?"
"Semplice" risposi quasi supplicandola.
Lei si sciolse in un sorriso convinto comprendendo la ritualità del momento.
Non era lo stesso dolce che divoravo ragazzino, almeno così mi pareva. Riusciva però, a far riaffiorare quel piacere serbato a lungo.
"Stia attento, la crema è bollente" mi suggerì la ragazza senza trattenere una risatina.
Era quello che desideravo. Bruciare il palato. Un marchio a fuoco, preludio delle ferite che nei giorni successivi avrebbe aperto la scrittura. Soffrire come può ancora un uomo, tale oltre la propria ombra.
Postumo
I ricordi del grande Carlo Cecchi, amalgamati con alcune sue considerazioni, mi hanno suggerito questa visione.
Eravamo al Colonna Antonino, uno dei luoghi dove Eduardo amava pranzare. Riso e spinaci, quel giorno.
Mangiava in modo vorace Eduardo, quasi aggressivo. Strano a dirsi, pensando al suo corpo nervoso e scattante. Anche nel suo modo di mangiare c’era qualcosa di tragico e teatrale.
Insieme a noi, Nicola Chiaromonte. Lo stimavo troppo per definirlo critico.
Chiaromonte disse “Il teatro italiano non esiste.”
Eduardo si fermò, il viso saldo, quasi indignato.
“Sicché io non esisto?”
Il cucchiaio, assecondando un suo vezzo antico, continuava a danzare tremulo davanti alla bocca.
Chiaromonte proseguì con fervore “Il teatro italiano non esiste! Tu sei un mondo a parte, sei un’altra cosa.”
Un’altra cosa. Anche io, oggi, mi sento un’altra cosa. Non mi sto paragonando a Eduardo. Non sto catalogando la mia o la sua grandezza. Queste piccolezze le lascio fare ad altri.
È una questione di percezioni. Mi percepisco diverso, superstite a me stesso.
Mi avverto postumo. Sono un postumo.