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Di Admin (del 29/03/2013 @ 12:19:31, in Articoli, linkato 2583 volte)

Nicola Pellecchia e Oreste Scalzone

"Oggi concisi che andiamo a trovare Oreste”. Così mi accogliesti quel martedì di inizio 2010. Pochi giorni prima Oreste Scalzone si era sentito male. Era sceso a Napoli per partecipare a una giornata di studi dedicata a Roberto Silvi. Dovevamo parteciparvi anche noi, ma tu fosti trattenuto a Procida da un impegno all’ultimo momento e io non ebbi modo di intervenire. D’altronde mi avevi avvertito “Devi vedere se riesci a parlare…”.

Oreste, dicevamo, si era sentito male davvero ma, come al solito, aveva dato nessuna importanza alla cosa ritenendo di non poter mancare a un impegno al quale teneva. I medici dissero che ci era mancato poco.

La prima volta c’incontrammo ai Quattro Palazzi. Mi sorprendesti alle spalle dove, ci avrei giurato, un attimo prima non c’era nessuno. Salimmo al tuo studio e lì, una sedia davanti all’altra, cominciammo a parlare. Il sole, quel giorno come tutti quelli che seguirono, batteva sempre alle tue spalle. D’altronde eri tu l’uomo di mare.

Bastò un incontro per capire che se volevo davvero conoscere e comprendere la pagina dei Nuclei Armati Proletari, non restava che buttarsi alle spalle tutta una serie di incrostazioni e di pregiudizi e mettersi all’ascolto. Iniziavo un lavoro che mi avrebbe cambiato per sempre.

Dopo il primo, i nostri martedì si susseguirono. I discorsi si infittivano. Riprendevi tra le mani il tuo tempo passato e lo facevi con grande serenità. Anche se il dolore era vivo e ardente come il sale in una ferita fresca. Ti piaceva sentire anche i miei racconti. Tutte le voci che in giro per l’Italia ero riuscito a raccogliere. Ti commuovesti per l’incontro con i compagni fiorentini e mi raccontasti, senza risparmiarti, chi erano Luca e Annamaria.

Quando incontravo qualche rifiuto, giustificavi chi non aveva voglia di parlare e mi incitavi ad andare avanti. Sorridevi quando ti raccontavo che avevo incontrato il giudice sequestrato dai Nap, e ascoltavi con grande attenzione le parole di un uomo che per la vostra storia mostrava un sincero rispetto. Sorridevi quando ti riportavo il desiderio di incontrarvi espressomi dal pubblico ministero che trentacinque anni prima aveva richiesto per voi pene durissime.

“Pure questo hai incontrato!” mi dicesti trasmettendomi un calore fraterno quando ti riportavo l’incontro con il poliziotto che combatteva per il suo stato e per la difesa della democrazia con torture e violenze. Già, la democrazia. “Sei incredibile” mi dicesti con il tuo sorriso pieno di mare quando ti portai i saluti di Giorgio Panizzari che ero riuscito ad incontrare nel carcere di Spoleto dove scontava l’ergastolo grazie alla faticosa autorizzazione ottenuta dal ministero di grazia e giustizia.

“Oggi concisi che andiamo a trovare Oreste”. Con il passare del tempo i martedì divennero per me un momento di crescita di cui non avrei più potuto fare a meno. Non di rado finivamo per discutere intensamente confrontandoci sugli argomenti più disparati. Sulla camorra capitò più di una volta di scontrarci. Eppure le tue riflessioni, mai scontate, mostravamo un’apertura mentale figlia della reale conoscenza.

Dei pescatori parlavi sempre con un trasporto paterno. Il telefono squillava spesso. E tu cercavi sempre di tenere in piedi quell’unione che avevi saputo creare. Con quella tua straordinaria capacità di linguaggio che avevi sempre avuto in dote. Eri in grado di dialogare con i pescatori parlando in un linguaggio comune per poi, con assoluta naturalezza, andare dal politico di turno a rappresentare le esigenze di una classe che, forse per la prima volta, portava avanti delle istanze condivise, anziché pensare ognuno al proprio particolare. D’altronde eri abituato a far questo sin da quando a Poggioreale dirigevi una commissione dei detenuti insieme a un politico regionale, finito in quei luoghi ameni per tutt’altre circostanze.

Poi, d’improvviso, guardavi l’orologio e imprecavi “Mannaggia a’ capa tua”. Se avevi qualche lavoro da portare avanti mi mettevi alla porta senza troppi complimenti e alla mia ultima domanda, cui sempre ne seguivano altre, mi replicavi “Mo’ te ne devi solo andare.” Altrimenti mi chiedevi di accompagnarti da tua madre ed era altro tempo da condividere. Anche se non ti capacitavi quando ti chiedevo di indicarmi la strada, vittima del mio noto senso dell’orientamento, e mi domandavi “Ma sei di Napoli, o no?”

Una volta incontrammo mia moglie. Pochi sguardi e un paio di domande veloci per capire chi avevi di fronte e poi la sentenza: “E’ duro stare con un rompiballe come tuo marito!” Aveva superato l’esame.

“Oggi concisi che andiamo a trovare Oreste”. Il libro andava completandosi tassello dopo tassello. Mancava poco alla conclusione quando ti chiedesti “E io con chi parlerò di queste cose?” Ti contraddissi. Se speravi di liberarti di me ti eri sbagliato. E infatti anche quando il libro fu pubblicato ci vedevamo, meno frequentemente, per raccontare come stavano andando le presentazioni e cosa avevano detto i diversi relatori. Tu il libro lo leggesti sul traghetto. Mi chiamasti per dirmi cosa ne pensavi, ma eri al largo di Capo Miseno e la linea cadeva in continuazione. Toccava attendere l’indomani. “Ci stanno parecchie fesserie, però…”

Alle presentazioni non eri mai intervenuto. Fino a quella che ci fu al centro sociale 081. Condita dalla consueta discussione dopo l’incontro. Maggio 2011. La sera con Tonino ti accompagnammo a prendere l’ultimo traghetto per raggiungere la tua Procida. Fu l’ultima volta che ci vedemmo prima del bastardo.

Mi chiamasti dall’ospedale. Ovviamente la sera mi persi tra i padiglioni, ma questo non ti sorprese. Mi raccontasti con la giacca d’improvviso larga, di come era iniziata, delle stupide rassicurazioni dei medici. Fino a quando l’ipotesi pancreatite aveva lasciato spazio a un timore più grande.

“Credi che non sappia come andrà a finire?” E mi parlasti di tuo padre. Ti chiedo scusa oggi, a distanza di meno di due anni Nicola, per averti detto che quei discorsi non li volevo nemmeno sentire, che sarebbe stata una battaglia durissima, ma che ne avevi vinte e combattute di peggiori. Non volevo vedere le cose per quel che erano.

Eppure, Nicola, tu la battaglia l’hai combattuta con tutto te stesso. Con una forza sovraumana figlia del desiderio bestiale di vivere e dell’amore immenso per chi non volevi lasciare solo per nessun motivo al mondo.  

Qualche giorno dopo quando ti raggiunsi sull’uscio della stanza c’era un ragazzo: “Appena puoi andare da mio padre, altrimenti lo sai come è fatto, si abbatte”. Eri in ospedale da pochi giorni e già ti conoscevano tutti per quel che sei, per la tua generosità, per la tua capacità di farsi carico degli altri. E tu andavi di stanza in stanza a vedere come essere di aiuto, come organizzare meglio i problemi altrui. 

“Uagliò, l’hai scampata!” mi avvertisti la mattina che ti stavano dimettendo: non avrei quindi dovuto fare la notte al tuo fianco come concordato. Perdonami Nicola, ma noi siamo bestie e ora a me quella notte manca. Vorrei averla vissuta per avere più legna da ardere per riscaldare il cuore.

Forse uno dei pochi argomenti che abbiamo appena lambito è il post mortem. La visione imperante nella sinistra antagonista, spesso figlia di un lucido raziocinio, altre volte di uno sterile schematismo, dichiara senza tema che dopo la morte non vi è nulla. Probabile sia vero, ma se così non fosse mi piace immaginarti discutere con il padreterno suggerendogli delle chiare migliorie che si possono apportare per rendere più piacevole la condizione di tutti.  

“Disturbo?” Non dimenticherò mai il regalo che mi hai fatto Nicola. Quella telefonata da Milano, prima di scendere per l’ultima volta a Procida. Eri sempre meravigliosamente vivo, caldo, fraterno. Nella tua voce stanca la voglia di sapere, di ridere, di vivere. E quando ci eravamo salutati, ancora l’ultima domanda “Aspetta, come è andata a finire poi…” Eppure te ne avevo parlato solo una volta, e tu avevi appena avuto una lunga e dura operazione chirurgica. Ma non avevi dimenticato.

Né dimenticherò mai il silenzio che c’era venerdì al Pozzo Vecchio. Nelle isole anche i cimiteri vivono di una luce diversa. Vi sfido a trovarne altri sul continente, circondati non da cipressi ma da alberi di limone. E con le onde pronte a rinfrescare il viso dalle lacrime. Quel silenzio non l’ho mai sentito, Nicola. C’erano almeno cento persone lì con te. Tutte sconvolte dal dolore, certo. Ma non c’era solo il dolore in quel silenzio. C’era la rabbia, l’incredulità. Quei quattro assi di legno erano una bestemmia.

Ti ho davanti agli occhi. Ti sto dicendo che non credevo potessi morire. E tu mi rispondi con il tuo solito sorriso e gli occhi pieni di sfida “O’ ver? E perché? ”

E te lo spiego io perché, Nicola. Perché il dolore che hai portato sempre dentro di te per i tanti, troppi compagni persi nel tentativo di arginare le brutture di un mondo, perché 20 anni di carcere e altrettanti di sacrifici figli della coerenza e del rispetto per una storia, perché nulla di tutto questo era stato capace di cambiarti, di non pensare al prossimo, ai suoi bisogni prima dei propri.

Perché la vita aveva un futuro dopo di te e tu volevi viverlo il più a lungo possibile.

Per questo Nicola c’era quel silenzio.

 

 

 

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Di Admin (del 20/04/2011 @ 14:53:29, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2781 volte)

"Vorrei che il futuro fosse oggi" ha suscitato molto interesse ed ha avuto un buon risultato di vendite, tanto che in autunno uscirà con una nuova edizione. L’autore, il napoletano Valerio Lucarelli, ha risposto alle mie domande su NAP, terrorismo ed attualità.

Perché hai deciso trattare l’argomento NAP?

Prima ancora di scriverlo, questo è il libro che avrei voluto leggere. Ma non esisteva. Ho dunque avvertito l’urgenza di colmare un vuoto. Addentrarmi nelle viscere della vicenda nappista, non solo mi ha permesso di coglierne l’assoluta originalità, ma mi ha anche rivelato il motivo di tanto silenzio. Ipocrisia e sensi di colpa irrisolti, hanno suggerito a tanti tra intellettuali e protagonisti dell’epoca, di guardarsi bene dal raccontare quel frammento esplosivo.

Perché nel libro dici che la storia dei NAP non può prescindere dalle persone?

In realtà tutte le esperienze che nacquero a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta – e dunque non mi riferisco esclusivamente a quelle che imboccarono con decisione la strada della lotta armata – non potevano prescindere dalle persone che gli avevano dato vita. Tuttavia la cifra nappista è particolarmente insita dal legame fraterno che saldava i militanti del gruppo. Rapporti interpersonali molto forti cementavano i nuclei. E in tanti casi, si trattava di veri e propri rapporti consanguinei. Basti pensare ai fratelli Mantini, Abatangelo, De Laurentiis, Sofia. Rispetto ad altri gruppi disciplinati da regole ferree, nei Nap il rapporto umano veniva prima di ogni altra cosa.

Quali sono i motivi dell’allontanamento dei NAP da Lotta Continua?

Il gruppo dirigente di Lotta Continua, in primis Adriano Sofri, in quegli anni ebbe delle straordinarie intuizioni, riuscendo a connettersi con pezzi di umanità fino ad allora mai considerati. I carcerati, conosciuti “grazie” agli arresti dei militanti di Lc al termine delle tante manifestazioni che in quel periodo si susseguivano, rivelarono un’inattesa carica rivoluzionaria. Insieme ai militanti di Lc nelle carceri entrarono i libri e una nuova prospettiva: essere parte di un processo rivoluzionario. La carica emotiva fu enorme. Quanto l’aspettativa di una potente palingenesi. In realtà alle intenzioni non seguirono i fatti e Lc frenò bruscamente disattendendo quanto prospettato. Ma oramai si era dato vita a un processo inarrestabile e i detenuti politicizzatisi in carcere, una volta usciti, intendevano dare corpo alle tante teorie apprese. Dinanzi alla mutata strategia di Lc, non vi erano che due possibilità. Dimenticare quanto si era scoperto e magari scontare senza fiatare le condanne ulteriori ricevute per le tante sommosse cui si era dato vita in nome di ideali nuovi, o imboccare da soli, e senza paracadute, la strada della lotta armata. Ciò che fecero in tanti.

Che rapporti hanno avuto i NAP con le Brigate Rosse?

Tra il 1974 e il 1975, con le Br ridotte in ginocchio dagli arresti di Curcio e Franceschini, e dalla morte di Mara Cagol, sono i Nap il gruppo eversivo che desta i maggiori timori negli organi inquirenti. Le attenzioni degli investigatori, che nel frattempo sottovalutano il tentativo di ricostruzione condotto dai nuovi vertici brigatisti, producono arresti in serie tra i militanti nappisti. I rapporti di forza dunque mutano decisamente a favore delle Br, l’organizzazione più forte e strutturata fra le molte della galassia lottarmatista. Naturale dunque che molti nappisti guardassero alle Br con attenzione fino a confluirvi, al termine della loro esperienza. Ma la vera anima nappista era profondamente lontana da quella brigatista. Gli stessi dirigenti della stella a cinque punte, guardavano con diffidenza i “cugini” nappisti, forse essi stessi non del tutto sgombri dai retaggi del passato. Rivalutare il proletariato extralegale da lumpen a soggetto rivoluzionario autentico, era un percorso mentale eccessivamente arduo per molti di loro. A mio giudizio tra Br e Nap sono maggiori le dissonanze rispetto ai punti di contatto.

Secondo te ci sono state infiltrazioni da parte dei servizi segreti?

È importante sottolineare come i Nuclei Armati Proletari siano stati l’unico gruppo che al suo interno non abbia conosciuto il fenomeno del pentitismo. In Vorrei che il futuro fosse oggi vengono chiariti alcuni episodi della loro storia. A farlo sono stati gli stessi militanti che, dopo aver taciuto per trent’anni agli inquirenti, hanno deciso oggi di sgombrare il campo da ogni ipotesi romanzesca. Questo però non significa che le forze di polizia non abbiano usato ogni arma a loro disposizione per penetrare all’interno dell’organizzazione. Chi leggerà il libro troverà indicata anche una fonte adoperata dai vertici dell’antiterrorismo per monitorare, assai da vicino, l’operato nappista e giungere, in un paio di circostanze, ad importanti arresti. I Nap avevano forti rapporti con la piccola criminalità, lì dove da sempre la polizia ha i suoi informatori. Dunque quella che era la ricchezza dei Nap - il dialogare alla pari con fette di emarginazione - si rivelò per certi aspetti anche la loro debolezza.

Qualche tempo fa Adriano Sofri ha parlato per la prima volta di un incontro con Federico Umberto D’Amato, potente capo dell’ufficio Affari Risevati del Viminale, il quale neppure troppo velatamente gli propose l’eliminazione fisica dei NAP, presentandola come vantaggiosa per tutti. E’ credibile? Che interpretazione ne dai?

Quanto rivelato da Sofri è assolutamente credibile. Solo il tempo trascorso e gli scenari profondamente mutati, rendono oggi la scena descritta da Sofri inverosimile. Personalmente non ho alcun dubbio in merito. Erano scene all’ordine del giorno a quell’epoca. Piuttosto mi chiedo il motivo di una simile rivelazione a distanza di così tanto tempo. È difficile pensare che Sofri abbia voluto spedire un messaggio, lasciando magari intravedere la possibilità di rivelare altri inquietanti episodi della storia italiana. E tuttavia, qualcosa deve averlo spinto a una simile, per certi versi tardiva, denuncia.

Come mai si parla e si scrive poco sui NAP?

Essenzialmente per due motivi. Perché in tanti, che oggi magari godono di un prestigio indiscusso, non hanno voglia di “sporcarsi le mani” tornando a parlare di un’esperienza che in qualche modo li vide protagonisti e - ma questa è solo una mia ipotesi - corresponsabili. E poi, cosa certo più seria, la vicenda nappista è di straordinaria attualità. A dispetto della riforma penitenziaria nata sul finire degli anni Settanta, le carceri italiane oggi vivono una realtà non troppo dissimile da quella di allora. Affollate oltre ogni limite e decenza. E, a dispetto della profonda illegalità che oggi più di ieri marchia i mondi politici e finanziari, a riempire le carceri sono sempre gli stessi. Gli emarginati, i diseredati, gli ultimi. Uomini e donne che vivono di piccole illegalità, spesso sfruttati da organizzazioni più ampie, nel disperato tentativo di sopravvivere a una società che li disprezza e che non ha nessuna voglia, o forse possibilità, di incorporarli. Rispetto a trent’anni fa hanno forse un diverso colore di pelle, e parlano lingue lontane, ma la sostanza non muta. Sono sempre i più deboli.

Chiunque scrive di lotta armata deve affrontare il tema del rispetto delle vittime. Come ti sei posto di fronte a tale questione? Che reazione hanno avuto i parenti o le vittime stesse?

In tre anni di profondo impegno ho cercato di dare voce a tutti. Ho inseguito lungo tutto lo stivale i protagonisti di quella vicenda, dagli ex nappisti a chi, suo malgrado, finì nel mirino delle loro azioni armate. Ho incontrato e raccolto la straordinaria testimonianza del giudice Giuseppe di Gennaro, sequestrato dai Nap per il ruolo che ricopriva nell’amministrazione penitenziaria. Ho raccolto la voce di Alfonso Noce, capo dell’antiterrorismo che subì un agguato che provocò la morte di un giovane agente della sua scorta, Prisco Palumbo. In altri casi ho rispettato la scelta di chi non ha voluto riaprire ferite dolorose. Non appaia come una provocazione, ma ho la sensazione che in Italia i militanti delle formazioni armate e le vittime degli attentati siano legati da un unico filo. Che gli impedisce di parlare e di raccontare ciò che è accaduto in Italia. Perché con quel periodo, che pure risulterebbe illuminante per il nostro presente, nessuno è pronto a fare i conti. Nemmeno le più alte cariche istituzionali del nostro paese, che vissero quella stagione e che forse, con la loro miopia politica, ne furono corresponsabili.

La situazione delle carceri italiane è molto distante da quella degli anni Settanta? Le motivazioni dei NAP potrebbero essere ancora attuali?

A dispetto del recente indulto i numeri non concedono spazio alle interpretazioni. Oltre settantamila detenuti con un tasso di sovraffollamento che supera il 150%, più di quindicimila dei quali in attesa ancora del primo giudizio. Il 37% di immigrati, il 27% tra tossicodipendenti e affetti da Hiv. Negli ultimi due anni 350 detenuti sono morti fra le mura di un penitenziario e 150 sono i suicidi “contabilizzati”. Assolutamente privi di qualsiasi morale i sei ospedali psichiatrici giudiziari ancora aperti in Italia, recentemente visitati dai commissari del Consiglio d’Europa i quali sono rimasti sconvolti nel trovarsi di fronte a realtà inimmaginabili. Mettiamo per un attimo da parte i Nap e chiediamoci: ci sta bene tutto questo? Carceri e manicomi giudiziari rappresentano la nostra società? È questa la nostra democrazia?

In questi giorni l’Italia festeggia i 150 anni dell’unità nazionale. Ha senso approfondire il tema della lotta armata o si tratta di archeologia?

Sono perplesso. Ho più d’una difficoltà nel definire il concetto “Italia”. Non avendo le idee chiare in proposito mi è difficile esprimermi con chiarezza. Tuttavia sento un gran vociare intorno alla Costituzione italiana. Uno scontro tra chi la vorrebbe rottamare, magari adattando il tutto alle esigenze proprie e della casta che rappresenta, e chi invece la loda come grande esempio di civiltà moderna. Mi piacerebbe se questi ultimi facessero di più, dunque facessero qualcosa, per far si che l’articolo 27 della costituzione, lì dove recita che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, non si rivelasse che un’accozzaglia di parole senza senso legate dal brodo dell’ipocrisia. Parlare della lotta armata, e in senso più ampio degli anni Settanta, è l’unico modo per poter voltare pagina. Comprendere appieno le incredibili scosse che animarono una generazione, i tragici errori che molti commisero producendo lutti insensati, e le responsabilità di un’intera classe politica che mandò al macello tanti, da una parte e dall’altra, pur di rinsaldare un ordine imposto da lontano. Ma sono realista, e dunque del tutto scettico. L’Italia è un paese in ginocchio. Incapace di alzarsi, camminare con le proprie gambe, capire il proprio passato, decidere il proprio futuro.

Il link alla pagina: http://osservatoriop.blogspot.com/2011/04/intervista-valerio-lucarelli.html

 

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“Ti devi leggere questo libro: Vorrei che il futuro fosse oggi di Valerio Lucarelli“, mi fa un amico. Pensandoci credo di conoscere l’autore che, scherzando, mi fu presentato come il peggiore scrittore al mondo e allora sorrido e mi prometto di leggerlo.

Vorrei che il futuro fosse oggi è un libro avvincente nel quale si materializzano personaggi e fatti lontani nel tempo eterno dell’ingiustizia sociale. Storie che escono prepotentemente dalle pagine per scorrerti davanti come in una pellicola. Se la letteratura ha la forza di rendere la finzione più vera della realtà qui ha trovato pane per i suoi denti. L’inchiesta ci immerge in una delle pagine più buie e assurde della nostra storia.

Grazie a un’indagine scrupolosa, ad una scrittura asciutta, che non rinuncia alla bellezza, Valerio Lucarelli ha ridato colore e movimento alle istantanee in bianco e nero che la nostra democrazia ha rimosso dall’immaginario collettivo. Sprofondandole in una dimenticanza che oggi è tanto più pericolosa perché le condizioni precarie in cui quei ragazzi scelsero la lotta armata sono le stesse di oggi.

Partirono da un’idea potente e spaventosa: “Fare emergere sulla scena politica strati sociali fino ad allora umiliati, portare sul terreno della lotta rivoluzionaria la questione carceraria”. Fu la nascita dei Nuclei Armati Proletari.

Come afferma lo stesso autore nel preludio: “Un pomeriggio incontro un protagonista di questa storia. Non è la prima volta. Sa che ho parlato con diversi suoi ex compagni e mi domanda a che punto sia con il lavoro. Ci penso in silenzio, mentre ci incamminiamo al solito bar. Quindi, gli rispondo. Ho raccolto molto materiale. Sufficiente per capire che non mi avete ancora detto nulla. Lui mi guarda e sorride. Mi fa segno di sedere e comincia a raccontare”.

Spero possa diventare presto un film, intanto accattatavillo!

Il link alla pagina: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/15/la-lotta-dei-nuclei-armati-proletari/104719/

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Di Admin (del 17/03/2011 @ 12:27:00, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2601 volte)

Tra il 1973 e il 1977 i NAP (Nuclei Armati Proletari) bruciarono la loro stella rivoluzionaria in una serie di azioni armate, dirette o "pedagogiche", rivolte ai soggetti sociali più deboli: prigionieri, ex detenuti, marginali, non-garantiti, extralegali. "O ribellarci o morire nei ghetti"...

Franca Salerno, militante e icona femminista dei Nap, si è spenta il 3 febbraio a Roma. Alle spalle la malattia, il tunnel incurabile del carcere speciale. Qualche riflettore acceso sulla camera ardente, contribuirà forse a riconsiderare, come il testo di Lucarelli, l'esperienza rivoluzionaria, inedita, dei Nap.

I Nuclei - il cui simbolo programmatico si deve al vulcanico Claudio Carbone (morto in cella per un probabile attacco cardiaco) - nacquero, secondo la genealogia documentata dall'autore, da una costola di Lotta Continua (Collettivo Carceri) e dal collettivo Jackson di Santa Croce, fondato da Luca Mantini.

Nel loro crogiolo politico i refernti, come le letture formative, sono difformi, spesso "eretici". Sincretismo innegabile che Lucarelli evidenzia nel preludio. "Erano gli ex nappisti i primi a dover capire a quali progetti stessi lavorando".

Nel corso della loro breve esperienza politica sono stati tacciati di "immediatismo". Il loro programma di "lumpen politicizzati" è stato identificato con un destino suicidario. A vent'anni non si può fare altro per un'idea, se non morire per essa scriveva Bertold Brecht.

Fuori da reazioni emozionali, risulta, tuttavia, che i Nap avevano intuito "l'universo foucaultiano": la città penitenziaria, la criminalizzazione preventiva dei ceti pericolosi, i produttori extralegali come consumatori di carcere, lo stato garante di flussi repressivi e finanziari.

Evidenzia Lucarelli: "La percezione è che la loro traiettoria si spinga ben oltre la gabbia degli anni Settanta (...) per aver portato alla luce un mondo a parte, quello dei manicomi e dei penitenziari, fatto di continue vessazioni e della scomparsa definitiva di ogni minimo diritto esistenziale". Il degrado ignobile, immutato delle carceri, e il dilagare delle istituzioni concentrazionarie, disumane, ne sono la prova.

La memoria non è dunque superflua. Citando Jann_Marc Rouillan, fondatore di Action Directe, incarcerato da 25 anni: " La memoria costituisce un territorio di lotta nel quale si affrontano l'espressioni dominante (...) e la memoria ribelle (...). I ricordi tratteggiano la linea del fronte di un combattimento attuale."

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Di Admin (del 11/03/2011 @ 10:52:13, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2781 volte)

Negli anni di piombo la galassia ‘lottarmatista’ ha partorito una realtà diversa da tutte quelle che allora si contendevano il primato della rivoluzione proletaria: i Nuclei armati proletari, i Nap, costola scismatica e armata di Lotta continua. Hanno un’idea ben precisa di cosa debba essere una rivoluzione e sanno anche da dove partire: dai dannati della terra, facendo proprio non Marx, né Lenin, tantomeno Mao, ma Frantz Fanon.

E quei dannati, quei disperati senza futuro, sono tutti coloro che vivono prigionieri dello Stato nei penitenziari privati della dignità, abbandonati al proprio destino, nell’orrore di un sistema carcerario negletto, subdolo e terribilmente crudele. Il messaggio che Lotta continua porta avanti teoricamente è che “la società riproduce i suoi schemi in mille luoghi e situazioni diverse” per cui la lotta politica non può trovare soddisfazione soltanto nelle fabbriche, a difesa degli operai, che pure rimangono l’inno massimo dell’iconografia di quella sinistra.

Ma Lotta continua va oltre, facendosi portavoce di un disagio più tagliente. Convinta della necessità di agire sul territorio, punta a coinvolgere nuove figure “altre” dal mondo operaista: studenti, militari, disoccupati, carcerati, ovvero tutti coloro che per una ragione o per un’altra possano esprimere un radicale dissenso contro l’ordine costituito. Già questo, da solo, è un vero atto rivoluzionario che non può prescindere dal disagio endemico e barbaro che vive il Mezzogiorno d’Italia: un coacervo di situazioni sociali al margine, un cocktail di disagio pronto ad esplodere con impeto. Napoli diventa la culla di Lotta continua e costituirà anche il fulcro per la nascita dei Nap.

Sul finire degli anni Sessanta la lotta al sistema farcisce le carceri di mezza Italia. Lì, in quei luoghi fatiscenti recuperati da vecchi monasteri o strutture settecentesche riadattate alla meno peggio, si crea una miscela esplosiva tra gli studenti politicizzati ed i delinquenti comuni. Entrano i libri, si inizia a ragionare, a confrontarsi, a maturare una coscienza radicale e con essa la voglia di riscattarsi. Contro il sistema. Così germoglia il seme di Lotta continua che in tanti all’interno dei penitenziari hanno fatto proprio trasformandosi da ex detenuti a quadri politici.

La convinzione è una: “Immaginiamo solo per un istante tutti i reclusi della terra liberarsi dalle proprie catene ed assediare la società che li ha resi criminali. Uno scenario barbaro. Degno del peggior incubo notturno. La ribellione degli studenti si esaurisce presto. Quella degli operai può essere adeguatamente controllata e persino strumentalizzata. La rivolta dei miserabili, invece, ha la furia per stravolgere gli equilibri del pianeta”.

La voglia bruciante di riscatto, la necessità spasmodica di staccarsi dalla teoria per agire praticamente, porta alcuni ad allontanarsi da Lotta continua ed armarsi perché la lotta al sistema non si fa con le parole, ma col piombo. I Nuclei ingaggiano la loro piccola rivoluzione proletaria tra rapine, omicidi, sequestri di persona, una lunga teoria di attentati ed evasioni. La loro azione dura solo tre anni in cui si traccerà una drammatica scia di sangue, che li corromperà per sempre come persone e militanti, segnando inevitabilmente il loro triste destino…

Leggere la storia dei Nap è come restituire un tassello importante a quegli anni Settanta attraversati da un fermento irripetibile. Un frammento cruciale per guardare oltre quelli che sbrigativamente venivano chiamati “terroristi” assimilati con ignoranza storica alla straripante esperienza brigatista. La storia dei Nuclei armati proletari è anche la storia di un sistema carcerario agghiacciante, dell’incapacità dello Stato di provvedere al reinserimento sociale degli ex detenuti, ma è ancora più crudamente la denuncia di un apparato militare brutale che esercitava il potere con la consapevolezza dell’impunità.

I Nap sono stati un’esperienza effimera, ma intensa. Di estrazione perlopiù borghese, si sono arricchiti col tempo di quel lumpenproletariat disprezzato e sottovalutato, che però ha costituito la colonna portante di tutta la struttura e la linea di fuoco più accanita. Ma sempre di rivoluzionari improvvisati si trattava, animati più da convinzioni genuine di una rivoluzione sic et nunc che da sinergiche capacità organizzative.

Probabilmente, molte delle responsabilità della loro breve stagione vanno imputate ai numerosi errori commessi nel tempo, dai quali non sono mai stati in grado di riprendersi e dall’aver perso di vista, ad un certo punto della loro storia, il motivo vero della loro lotta, confondendolo con una inutile e fatale vendetta all’occhio per occhio.

 Valerio Lucarelli raccoglie per la prima volta in un libro le testimonianze di chi questa storia l’ha fatta. Molti si sono persi per strada, hanno voluto dimenticare. “Molti, saldati i conti con la giustizia, hanno potuto contare su un appoggio, garantitogli dalla loro provenienza. E pur tra consistenti difficoltà, hanno avuto una possibilità. Chi invece proveniva dal disprezzato Lumpenproletariat, chi dall’emarginazione aveva pensato di potersi finalmente riscattare, chi aveva risvegliato l’anima con la rivolta, non ha trovato dighe ad arginare la caduta. Quando la fiamma si è spenta è precipitato lì, esattamente dove era partito tanti anni prima. Tra i dannati della terra”.

Link originale: http://www.mangialibri.com/node/7948

 

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Di Admin (del 11/03/2011 @ 10:43:40, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2779 volte)

ANNI DI PIOMBO LA STORIA DI DEI NUCELI ARMATI PROLETARI Nap, i ribelli fecero strage (anche di sé) «Vorrei che il futuro fosse oggi» di V. Lucarelli di DIEGO ZANDEL

Valerio Lucarelli, campano, è nato nell'anno della strage di Piazza Fontana, il 1969, che diede praticamente l'avvio a quella stagione del terrorismo, segnata dagli opposti estremismi e da infiltrazioni di corpi deviati dello Stato, che avrebbe caratterizzato un lungo periodo della nostra storia recente. Ha potuto quindi, per età, averne avuto soltanto il sentore, via via che cresceva, attraverso le notizie, le immagini, i commenti, le reazioni della gente e in famiglia: non c'era giorno che non fosse segnato da un attentato, gambizzazioni, omicidi, bombe, sequestri, rivolte...

Evidentemente tutto ciò deve ben aver inciso sul suo immaginario di ragazzo, perché oggi Valerio Lucarelli è uno tra i massimi esperti di terrorismo di quegli anni. Dopo il romanzo Buio rivoluzione, ha scritto ora il saggio Vorrei che il futuro fosse oggi, sottotitolo «Ribellione, rivolta e lotta armata» (L'Ancora del Mediterraneo ed., pp. 205, euro 16), tutto incentrato sulla storia di una delle sigle meno conosciute del terrorismo rosso, quella dei Nap, ovvero Nuclei armati proletari.

Nella informazione comune si tende a far coincidere tutti i terroristi di sinistra con le Brigate Rosse, il gruppo sicuramente più numeroso e diffuso per organizzazione sul territorio nazionale, ma i gruppi che allora agivano, facendo parlare di sé attraverso le gesta che compivano, erano diversi altri, Potere Operaio, Prima linea, Proletari armati per il comunismo, Formazioni comuniste armate..., ciascuna caratterizzata da peculiarità e obiettivi propri.

Quella dei Nap, nati da una costola di Lotta continua che nei primissimi anni ‘70 si dava molto da fare, Sofri in testa, con gli operai dell'Italsider e dell'Alfasud, si concentreranno sulla lotta nelle carceri, tra i detenuti, con un passo in più rispetto al lavoro che, in questo ambito, già faceva Lotta continua attraverso Soccorso Rosso. I Nap rispondevano in pratica a esigenze ben espresse da Giovanni Gentile Schiavone, uno dei suoi ideologi: «C'è uno Stato che ti tiene in galera. E ti tiene in galera con una forza diretta ed espressione del suo monopolio. Non puoi scherzare. O lo accetti o ci vai contro. E se ci vai contro, ci vai fino alla fine. Non è riformabile la questione».

E i Nap hanno fatto così: sono andati contro fino alla fine, tanto da essere decimati e offrire, nelle file del terrorismo rosso, il maggior tributo di morti, a cominciare da quel Luca Mantini, tra i fondatori dei Nap, che sarebbe stato ucciso nel corso di una rapina in banca per autofinanziamento. Anche la sorella Annamaria, cattolica, attivista dei focolarini, il movimento religioso fondato da Chiara Lubich, al cospetto del cadavere del fratello pronuncia la frase: «Avanti sempre fino alla vittoria», impegnandosi poi nella lotta armata, anch'essa incontrando la morte nel sangue.

Senza alcuna mitologia, ma con gli strumenti dell'inchiesta giornalistica, la testimonianza dei protagonisti sopravvissuti a quella stagione, non solo gli ex nappisti stessi, ma anche le vittime tra queste, quella straordinaria del giudice Giuseppe di Gennaro, uno dei primi ad essere sequestrato dai Nap Valerio Lucarelli racconta in capitoli densi di nomi, episodi, scenari, collegamenti, una storia estrema di uomini e donne che, come scrive Lucarelli, «si sono trasformati in un'organizzazione militare arida, rinchiusa in se stessa. D'un tratto slegati dalla realtà, progettano ed eseguono azioni sanguinarie prive di senso, attraverso un esiguo gruppo di militanti, morti o arrestati oltre i quali è impossibile andare». E che, paradossalmente, nella opinione dei protagonisti di altre organizzazioni estremiste d'allora, sono considerati marginali rispetto il contesto dell'epoca.

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Di Admin (del 11/03/2011 @ 10:31:55, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2702 volte)

A Dicembre ho assistito alla presentazione del libro di Valerio Lucarelli nell'ambito di "Più libri più liberi", la manifestazione romana dedicata alla piccola e media editoria. Non ne ho ricavato un'ottima impressione, forse perché non avevo ancora letto il libro, o forse a causa di un paio di situazioni sfavorevoli.

Benedetta Tobagi, relatrice della presentazione, sembrava capitata lì per caso e si è dimostrata una scelta poco felice, anche se indubbiamente il suo nome ha attirato pubblico. Inoltre, mentre Lucarelli e la Tobagi stavano lì ad interrogarsi sul rapporto tra NAP e geometrica potenza, mi sono accorto di avere un paio di file dietro di me Valerio Morucci, ed ho trattenuto a stento l'istinto di alzarmi e chiedere a gran voce qualche delucidazione in più su la presunta "geometrica potenza".

Molto meglio parlare del libro, che Valerio Lucarelli ha scritto molto bene, con un taglio a metà tra il saggio erudito ed il racconto appassionato. Nel panorama variegato e realmente complesso della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta, i NAP hanno molti elementi distintivi, e Lucarelli li presenta con precisione, ed anche onestà, il che non guasta.

A tratti il racconto sembra esaltare eccessivamente la "purezza" della lotta portata avanti dai Nuclei Armati Proletari, ma è una sensazione ingannevole provocata dalla capacità del libro di andare in profondità, di non limitarsi alla cronaca ma dare anche spunti per capire cosa fossero i NAP, cosa volessero.

L'attenzione ai sottoproletari, ai carcerati, ai rinchiusi nei manicomi-lager degli anni Settanta fornisce ai Nuclei un pericoloso consenso che finisce per provocare una violenta repressione da parte dello Stato, forse uno dei più efficaci sulle sigle della lotta armata in quegli anni. La parabola dei NAP è tragica, intrisa più di drammi che di successi, e Lucarelli accompagna bene il lettore in questo percorso, a mio avviso tenendo nel dovuto conto anche la sofferenza delle vittime, troppo spesso dimenticate e offuscate dal protagonismo di chi ha basato la propria "fortuna" su eventi criminosi.

Si sentiva la mancanza di un libro sui NAP, ed il fatto che sia un terreno così poco esplorato aggiunge interesse all'argomento, soprattutto perché merita attenzione il comportamento dello Stato nei riguardi dei Nuclei, affrontati duramente, mentre si lasciava sostanzialmente campo libero al rafforzamento delle Brigate Rosse proiettate verso il sequestro Moro.

Link originale: http://osservatoriop.blogspot.com/2011/01/vorrei-che-il-futuro-fosse-oggi.html

 

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Ci sono storie che per la loro crudezza, vengono celate, dimenticate e sepolte nell’oblio di un immaginario collettivo morente, per poi emergere improvvisamente grazie alla forza vitale di un flusso narrativo efficace. È questo il caso dell’ultima fatica letteraria di Valerio Lucarelli, “Vorrei che il futuro fosse oggi. Nap ribellione, rivolta e lotta armata”(l'Ancora del mediterraneo) presentato al “Perditempo” di piazza Dante.

Il saggio ripercorre con dovizia di particolari la storia dei Nap, Nuclei Armati Proletari, che tra il 1974 e il 1978 si resero protagonisti, soprattutto nell’Italia meridionale, di azioni di lotta armata, culminate con due omicidi, quattro sequestri di persona, decine di attentati e un numero indefinito di evasioni. «Mi sono interessato anni fa alla vicenda dei Nap, perché ritenevo che quella storia celasse qualcosa di più profondo. Nella sfilza di libri dedicati alla lotta armata nessuno ha mai avvertito la necessità di raccontare le loro vicissitudini, sono scivolati via, come per inerzia, da ogni ricostruzione di quegli anni», fa notare Lucarelli.

La scelta narrativa del saggista, autore nel 2007 di “Buio Rivoluzione”, si basa sulla volontà di lasciare spazio ai protagonisti della vicenda, i nappisti, le vittime degli attentati, i poliziotti che li braccarono, i magistrati che li perseguirono, i giudici che li condannarono e i dirigenti di Lotta continua (da Erri De Luca a Guido Viale), attraverso una serie di interviste volte a ricostruire fedelmente il loro percorso. «In tanti mi hanno chiesto perché volessi riesumare i Nap, a cominciare dagli ex nappisti - prosegue Lucarelli - Per loro non è stato semplice riprendere il filo della memoria. I ricordi trascinano con sé un carico di dolore indicibile».

I Nuclei Armati Proletari, privi di una forte componente teorico intellettuale e sprovvisti di una struttura gerarchica rigida, a differenza delle Brigate Rosse, in quanto organizzati in nuclei autonomi, pagarono il limite di una libera organizzazione interna e di una suddivisione in cellule troppo deboli e ristrette per poter durare a lungo. I Nuclei Armati Proletari, a differenza di altri gruppi di sinistra extraparlamentare di quegli anni, non ponevano al centro della loro azione la classe operaia, ma il proletariato extralegale, l’emarginato, denunciando con vigore la situazione disumana in cui erano costretti a vivere coloro che si trovavano rinchiusi nelle carceri e nei manicomi.

Il dibattito si è chiuso con un ricordo di Franca Salerno, storica attivista dei Nap, deceduta pochi giorni fa, dopo una lunga malattia e salita alla ribalta delle cronache dell’epoca per la foto che la ritraeva in carcere con il pancione. Aspettava suo figlio, Antonio, che morirà poco dopo la sua scarcerazione, per un incidente stradale, a soli 28 anni.

 

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Quando uno scrittore accetta che una sua opera diventi pubblica deve tener conto che da quell’istante il libro non è più di sua proprietà, ma appartiene a tutti. Effetto di questa appartenenza collettiva è la libertà che chiunque può assumersi di criticare il testo, finanche giungendo a definirlo poco valido.

Non è questo ciò che ha fatto Sergio Lambiase nella sua recensione del mio libro sui Nuclei Armati Proletari. Al contrario, Lambiase lo ha definito intenso e ben documentato. A lasciarmi amareggiato è stata però la conclusione dell’articolo, lì dove Lambiase definisce ambiguo il libro - e persino il suo titolo - e vi rintraccia nientemeno che l’auspicio di un ritorno alla lotta armata. Affermazione del tutto infondata che merita una doverosa smentita.

Ho compreso il motivo del perché fino ad oggi nessuno si fosse mai accostato ai Nap quando decine di testimonianze mi hanno rivelato il volto tragico e intenso di una esperienza del tutto originale nella galassia delle formazioni che scelsero la lotta armata. In particolare era nuovo il soggetto rivoluzionario che i Nap ponevano al centro della loro azione. Non la classe operaia, ma il proletariato extralegale, l’emarginato, l’estraneo alle magnifiche sorti e progressive, fatte baluginare dal Novecento.

I Nap portarono alla ribalta la sciagurata realtà delle carceri e dei manicomi. Le morti di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, i suicidi che si susseguono nelle carceri – l’ultimo pochi giorni fa all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa – dimostrano come in Italia il tempo non passi mai.

Per raccontare i Nap ho scelto l’unica strada possibile. Né romanzi pasticciati, né saggi pedanti potevano racchiuderne per intero il pathos. Meglio farsi da parte e dare la voce ai protagonisti dell’epoca. Gli ex nappisti dunque, ma non solo. Le vittime dei loro attentati, i poliziotti che li braccarono, gli avvocati che li difesero, i magistrati che li condannarono.

Vorrei che il futuro fosse oggi descrive in modo fedele la parabola nappista, ma non è certo un libro anestetizzato. Senza ambiguità ho espresso forti dubbi su alcune operazioni di polizia terminate con le morti di militanti nappisti. Uno stato democratico non può risolvere i contrasti soffocandoli nel sangue. Come pure ho sottolineato la piega folle presa d’un tratto dai Nap che disperdevano tutta la propria carica primitiva, producendo attentati che a nulla servivano se non a generare tragedie inutili.

Chi dunque scorge nel libro un inno alla lotta armata non solo è lontano dal vero, ma, cosa ancor più grave, si chiude al confronto. Viviamo un’epoca difficile, il lavoro non è più un valore certo e le pulsioni sociali crescono a dismisura. I più giovani vivono un tempo disorientante. E’ il momento di fermarsi, comprendere, crescere.

Ancora oggi la pagina dei Nap rappresenta un nervo scoperto. A coloro i quali preferiscono chiudere la bara dei ricordi e con essa sotterrare le proprie responsabilità storiche, fanno da contraltare i tanti giovani che, come assetati, hanno trovato in questa storia un tassello che mancava alla loro conoscenza.

Sarebbe interessante trasferire sulle colonne di questo giornale il dibattito che sorge ogni qual volta discuto in pubblico del libro. Raccogliere i ricordi di quella stagione, e ancor più i disagi di un presente angusto e soffocante all’interno di una società che, presto o tardi, dovrà tornare a riscrivere le proprie regole.

Le scosse che da Pomigliano a Mirafiori attraversano la Fiat, pur nascendo all’interno delle fabbriche, riflettono non più un ormai superato scontro di classe, ma la precarietà di esistenze costrette a fare i conti con un futuro spettrale. Non possiamo liberarci da una speranza. Quella di un futuro migliore, di una società più equa, capace di offrire a tutti i beni essenziali a una vita dignitosa, riducendo, o magari annullando, le laceranti sperequazioni cui oramai siamo abituati. Ricchezze infinite nelle mani di pochi e milioni di persone costrette a inseguire per tutta una vita il senso disperato della loro esistenza.

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Di Admin (del 11/01/2011 @ 13:24:20, in Vorrei che il futuro fosse oggi , linkato 2735 volte)

E' Erri De Luca ad aprire il libro di Valerio Lucarelli Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata racconto delle gesta dei Nap, che debuttarono ufficialmente con gli ordigni piazzati davanti a Poggioreale, San Vittore e Rebibbia - il 1° Ottobre del 1974 - col perentorio invito ai detenuti a intensificare la lotta "contro i lager borghesi" fino alla "rivolta generale nelle carceri".

Dice dunque De Luca all'autore, trasformando la nudità del terrorismo in racconto, in fabula, perfino in rimpianto, a proposito di Giuseppe Sergio Romeo, il nappista di Aiello del Sabato, nell'avellinese, ucciso nel fallito assalto ad una banca di Firenze il 29 ottobre di quello stesso anno, insieme a Luca Mantini, uno degli "angeli del fango" dell'alluvione del '66: «Ho conosciuto bene un ragazzo, abitava con me. Si chiamava Sergio, Sergio Romeo. Aveva vissuto tanta parte della sua giovane vita nei riformatori che aveva perso la misura del proprio corpo. Quando camminava in casa Sergio sbatteva contro gli stipiti delle porte, urtava i tavoli, non riusciva a misurare il suo corpo con lo spazio».

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