NUCLEI ARMATI PROLETARIVorrei che il futuro fosse oggi - L'inizio

«Ho conosciuto bene un ragazzo, abitava con me. Si chiamava Sergio, Sergio Romeo. Aveva vissuto tanta parte della sua giovane vita nei riformatori che aveva perso la misura del proprio corpo. Quando camminava in casa Sergio sbatteva contro gli stipiti delle porte, urtava i tavoli, non riusciva a misurare il suo corpo con lo spazio».

Ho raccolto le parole di Erri De Luca, responsabile romano del servizio d’ordine di Lotta continua negli anni Settanta, in un afoso pomeriggio settembrino. Scendeva dalla sua Monte di Dio e al Gambrinus, storico bar partenopeo, ha sbrigliato la matassa dei ricordi.

A tratti il suo volto si infiammava e il braccio sinistro insisteva in un gesto martellante. Una forza non sopita sgorgava dal suo pugno chiuso. In un sussurro mi ha offerto il suo «buon viaggio».

È stato davvero un viaggio, un susseguirsi di istantanee, voci e volti, sguardi e silenzi di uomini che oggi raccontano la storia cui hanno dato vita ieri.

Un viaggio nato dall’esigenza di riannodare i fili, recuperare una pagina di storia finora trascurata, libero da ogni pregiudizio; equidistante dai censori tetragoni che, ossessivi come un disco rotto, lanciano strali contro gli anni Settanta, e dagli intellettuali ammiccanti, sconsiderati quando non scaltri nel trascurare l’influenza che le parole hanno sulle azioni altrui.

Nella sfilza di libri dedicati alla lotta armata nessuno ha mai avvertito la necessità di raccontare la vicenda dei Nap. Scivolati via, come per inerzia, da ogni ricostruzione di quegli anni.

In tanti mi hanno chiesto perché volessi riesumare i Nap. A cominciare dagli ex nappisti. Per loro non è stato semplice riprendere il filo della memoria. I ricordi trascinano con sé un carico di dolore.

Mi è stato chiaro sin dal primo incontro con Mimmo Delli Veneri. Per oltre un’ora ho provato a scalfire l’inverno beneventano e i suoi dubbi. Delli Veneri era lì, dall’altro lato della scrivania.

Sul principio il suo sguardo era rivolto in basso. Poi mi osservava, cercando oltre le mie parole. Quando non ho avuto più nulla da dire, gli ho chiesto se mi avrebbe offerto il suo contributo. Ha risposto, non subito. Un impercettibile movimento del capo, seguito da una precisazione: «Non adesso però. Fatti risentire più in là».

A tre anni di distanza dalla prima, è arrivata l’ultima testimonianza, quella di Pietro Sofia, a lungo incerto sull’opportunità di tornare ad agitare il passato. All’uscita dell’autostrada di Avellino ovest mi ha salutato e si è scusato di non potermi dedicare che pochi minuti, il tempo necessario ad affidarmi un suo breve scritto. Invece, abbiamo discusso per tre ore – scomodamente chiusi in auto – al termine delle quali Sofia mi ha salutato con un pensiero che come un soffio gli era finito sulle labbra: «Spero che fai bene». Abbandonando me, in cerca di risposte, a un nuovo carico di domande.

Erano gli ex nappisti i primi a dover capire a quale progetto stessi lavorando. Se fino a oggi ognuno di loro ha evitato qualsiasi tipo di ribalta mediatica è perché nessuno ha mai pensato di fare di se stesso e della propria vita una merce.

Nomi come Renato Curcio o Alberto Franceschini sono noti a tanti. Poco importa se a sproposito vengano accostati alla strage di piazza Fontana, figlia della strategia della tensione, o al sequestro Moro, di cui erano all’oscuro essendo detenuti da anni. Per non parlare di Mario Moretti, Valerio Morucci e altri ancora, personaggi divenuti celebrità. Brigate Rosse e Prima linea sono brand certo più affermati.

Sui Nuclei armati proletari invece è scesa una coltre di silenzio. I nappisti sono sconosciuti ai più. La percezione è che la loro traiettoria si spinga ben oltre la gabbia degli anni Settanta. Che non si possano decifrare e archiviare con eccessiva leggerezza. È materia bollente, per chi ha la forza di non dimenticare.

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